lunedì 19 novembre 2012

PER NON DIMENTICARE - INKIOSTRO UN ANNO DOPO - Stanza 137

di a.muffinshow

dedicato alla Prof.ssa L.
che insegna Dante e
di letteratura non capisce
una sega di niente

Cani lettori, 
vorrei con la presente presentarvi uno scritto inviato l'anno scorso ad un concorso letterario.
Un concorso utile come l'occupazione senza "K".
Il tema del suddetto concorso era "Resto o vado via". Parlando di tutto e niente mi sono sentito in dovere di insegnare ai dottorandi che non hanno vinto una borsa di studio in Italia e hanno vinto il concorso, parlando della fuga del loro "cervello" in paradisi intellettuali, tipo la Svizzera, patria di De Sausurre, del cioccolato e dei calvinisti.
Godetevelo perché due ebrei che parlano a cazzi e citazioni dall'Antico Testamento non sono cosa da tutti i giorni, visto che solitamente sono impegnati a contarli.

STANZA 137

Hotel. Interno. Due uomini nel salotto della suite. Dalla finestra la luce di fine giornata. Molto fumo di sigaretta e odore di divano nuovo (non più cellophane , ma quasi) o pulito. Uno, tranquillo, sedato e ciondolante, in piedi alla finestra, guarda la gente che passa per strada.
L’altro cammina nervoso per lo spazio, cercando qualcosa nella tasca. La trova. La tira fuori.

“Merda. Si è rotta in due.”
“Cosa si è rotta?”
“La sigaretta, no?!... cazzo, guarda qui.”
“Guarda cosa?”

Si gira e osserva l’altro.

“Secondo te cosa dovresti guardare se ti dico ‘guarda’?”
“La sigaretta, ho capito…”

Sospira dolcemente. Inizia a pensare.

“Sai in cosa siamo diversi dagli animali? In nulla. Se guardi bene puoi vedere tutto, da qui. Tutto è su quel marciapiede. È come se lì corressero gazzelle e cavalli, volassero aquile e passeri,  come se la iena giocasse col mulo e la gallina sonnecchiasse sul leone. Loro non sanno di essere identici al gatto. Non capiscono che il trucco sta nel passaggio tra Energia e Materia.”

Smette di pensare. Sospira sconfitto.

“Scusami. Pensavo ad altro.”
“A che?”
“Al fatto che loro, giù in strada, non pensano e non capiscono, quindi non guardano ai particolari. Secondo te la gente  pensa mai che il polmone sinistro è più piccolo di quello destro? No, non lo pensa. Eppure continua a fumare tranquilla credendo di avere due polmoni, quando in realtà ne ha uno e tre quarti, o giù di lì.”
“E allora? Immagino abbiano qualcosa di più importante a cui pensare. Io ce l’ho, per esempio.”
“Cos’è che hai?”
“Qualcosa di più importante a cui pensare. Cosa vuoi che mi freghi di un quarto di polmone in meno… e poi tu non ti occupi di fisica? Non ti stavi scervellando sul 137, con tutti gli elettroni e le  costanti e tutte quelle cose?”
“I numeri non sono tutto.”

Torna a guardare in strada.

“A no?”
“No.”
“Giusto. Dimenticavo che sei un genio. Fisico, mistico, filosofo. Tu pensi allo stesso momento su piani differenti.”
“Lo spazio-tempo non centra nulla in questo momento.”
“Sarà…”

Sospira e torna a cercare nelle tasche.

“Comunque, come sei arrivato a questa brillante conclusione? Perché proprio tu, adesso, mi vieni a dire che i numeri non sono tutto?”
“Qual è il numero di questa stanza?”
“Non lo so. Dimmelo tu.”
“137.”
“Oh cazzo. No…”
“Invece sì. Vedi, ho studiato fisica per quindici anni e l’ho insegnata per altri dieci. Ho fatto migliaia, milioni di calcoli e non ho mai considerato la casualità. O meglio, non ho mai ho considerato la casualità delle coincidenze.”

Il cervello si sblocca e intuisce ogni cosa.

“È Lui. Vuole dirmi qualcosa.”
“Sì! Sarà sicuramente Lui. Come sempre dimentico la Cabalà… ma dove…? eccola!”

Nuova sigaretta. Nuovo tentativo.

“Merda. Non funziona.”
“Cosa non funziona?”
“Questo stronzo di accendino.”

Lo scuote e ci riprova. Borbotta fra sé “Sarà scarico, il bastardo…”. Torna a parlare ad alta voce.

“Niente. Non funziona.”
“Mi spiace.”
“Di che? Dell’accendino?”
“No. Per il tuo polmone sinistro.”

Lo fissa con disprezzo fraterno.

“Io vado in cucina ad accenderla al fornello. Tu continua pure a parlare. Tanto non ti ascolterei comunque…”

Esce dalla stanza ma la sua voce continua a sentirsi.

“… come la volta della tua visione del caffè postmortem nei giardini di Dio. Te lo ricordi?...”

Rumore di un fornello a gas che si accende.

“… con tutti quei tizi delle varie religioni a bere da tazze di porcellana…”

Torna nella stanza. Sbuffa fuori il fumo e riprende a parlare con la voce strozzata di chi parla fumando.

“… a parlare di pace e fratellanza e del ricordo della riconciliazione tra la Vergine e il Serpente e dell’assoluta trascendenza di Nostro Padre. Tranne quei coglioni degli shivalisti che, aspetta com’era?... giusto!”

Lo indica, citando letteralmente.

“ ‘facevan l’amore senza più corpo al ritmo di settantasettemila orgasmi tantrici’. Te l’ho detto. Tu sei malato.”

Scuote la testa.

“No. Il mio analista dice che ho l’ipertrofia dell’essere. Dice che il mio eg…”
“Tu hai l’ipertrofia della bottiglia! Devi smetterla con quella merda. Quanti anni hai? Sedici? No, non più!  Sei un adulto ormai. La cosa ti spaventa? Beh, vedi di fartene una ragione e piantala.”

Fuma avido. Fuma cattivo.

“E piantala pure con quell’idiota di psicanalista. Quelli sono i peggiori. Sono addirittura più complessati di Dio.”
“Hai detto una cosa intelligente.”
“Certo, cazzo. Il fatto che sia volgare non significa che sia un idiota.”
“Non ho detto che sei volgare o idiota. Ho detto che hai detto una cosa intelligente.”
“Non ho detto nulla di intelligente. Tutti hanno sotto agli occhi il Suo comportamento autistico. Solo che io ho il coraggio di dirlo. Non è terribile né misericordioso. È come un barista che serve da bere e soffre con chi gli racconta la sua storia. Solo che non dice nulla. Serve da bere e se ne sta zitto. Esattamente come un cazzo di barista autistico. E ti ripeto di smetterla con quella roba. Ti spappola il fegato e il cervello.”

Mentre parla sparge fumo per la stanza. Strappa di mano all’altro un bicchiere tozzo. Inizia a tossire. Ha tirato troppo a lungo prima di parlare. Spegne la sigaretta in un posacenere sul tavolo.

“Cazzo, mi mandi in bestia. Mi fai pure strozzare… comunque sappi che non mi piacciono i funerali. E non ho voglia di venire al tuo. Sai che odio mettere il vestito. Mi si sfregano le cosce e poi mi si irritano e sembro una scimmia… tutto il giorno a grattarmi là, là sotto… insomma, in mezzo alle gambe cazzo, come se avessi gli slip troppo stretti, come un cazzone che a trent’anni non è ancora capace a comprarsi le mutande. Quindi smettila di bere. Se non vuoi farlo per te fallo almeno per me… e per il mio interno coscia.”

Ride come ride il fumatore. La risata del cane. Il latrato.

“E tagliati quella barba. Sembri lo zio Moishe.”
“Quant’è che è morto?”
“A dicembre fanno venti… no ventun anni. Quello stronzo ci ha anche rovinato Channukkà. Ma che ti frega scusa?”
“Niente. Pensavo.”
“Tu pensi sempre. A volte ti ammazzerei.”
“Oh, qui nasce un problema.”
“Ossia?”
“Che anche io ti ammazzerei. Ma lo farei così, per provare l’emozione di togliere la vita ad un uomo. Poi tu hai infranto tutte leggi del Decalogo. Io non ho mai disubbidito. Potrei iniziare proprio da lì. E pensa, tra tutti i possibili candidati sceglierei te.”
“E perché?”
“Perché tra l’uccidere un uomo buono e ucciderne uno cattivo c’è una grande differenza. E tu, mi spiace, ma sei un uomo cattivo.”

Gli si avvicina. Lo prende per il colletto della camicia.

“Mi stai dando dello stronzo, per caso?”
“Esattamente.”

Il pugno gli gira la faccia. Cade a terra. L’altro sparisce per accendere una seconda sigaretta. Senza preamboli questa volta. Tornato, lo aiuta ad alzarsi. Lui si guarda la punta delle scarpe.

“Penso di dovermene andare.”
“Perché?”
“Perché mi tratti ancora come se avessimo dodici anni. A fare il granduomo, quello che piglia a pugni, con la macchina potente e la sigaretta in bocca, che spacca bottiglie in faccia alle persone, hai presente?  Proprio come uno stronzo.”
“Non provocarmi.”

Silenzio. Tira dalla sigaretta. Cerca di calmarsi, lo stronzo.

“Scusami. Rovino sempre tutto, cazzo. È che ci tengo. Sei mio fratello. Solo che mi sembri Giobbe. Sconfitto. Perché così è più comodo, vero? Reciti - e male te l’assicuro! - la parte dell’uomo alla vivaddio. Solo che non c’è Dio, o la concorrenza, a renderti la vita una merda. Ci sei solo tu…”
“Giobbe?”
“Esatto. Smidollato, boccalone, leccaculo, debole, patetico Giobbe. Che vive da merda, sulla merda.”
“Sarei io, la merda?”
“Sì.”
“Mi hai stufato. Davvero. Me ne vado.”

Prova  ad andare verso la porta ma viene fermato dall’altro, forse un poco più alto, sicuramente più sobrio.

“Non fare l’idiota, sei ubriaco fradicio. Non puoi guidare in quello stato.”
“Me ne vado, fratello. Me ne vado.”

Prova a dirgli, ancora, di aspettare, bloccandolo. Lui si libera – l’altro smette di opporre resistenza - e tacendo attraversa la stanza piena di fumo. Guadagna l’uscita. La porta si chiude.

“Allora vattene, fratello. Vattene affanculo."

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