sabato 25 agosto 2012

Un post al sole


di a.muffinshow

Ilario era un alcolizzato che aggiustava barche sul Lago. Era un ragazzone, aveva un fegato d'acciaio, due palle così e aveva sogni potenti. Ilario Sognava il mare e i libri che gli avevano insegnato a vivere. 
                                                                              ***
Scott e Zelda li conobbe la prima sera. Erano ubriachi di bourbon e di amore. Bevvero a casa loro sino ad addormentarsi parlando di niente. Gli chiesero cosa facesse e lui rispose che sistemava barche. Zelda gli strizzò l’occhiolino dietro al cristallo del suo bicchiere e Scott, al risveglio, impavido nella letteratura tanto quanto pavido nella vita reale, gli presentò Hemingway.
Era la seconda sera. Bevvero allora fiumi di Brut e parlarono di boxe dopo un caffè che non poteva essere chiamato tale. Ilario offrì una sigaretta al provinciale più cosmopolita del mondo. Fece un cenno al cameriere e bevvero altri settantasette volte sette bicchieri di Capri e vomitarono sino al mattino tenendosi il capo l’uno con l’altro.
Non che Scott fosse antipatico, beninteso. È che doveva rincorrere la sua meravigliosa mogliettina, prova vivente dell’esistenza di un Dio alcolizzato e quindi aveva poco tempo per stare con loro. Ilario era ancora così stupido da reputare intelligente una persona non per quello che potesse esprimere, ma per quanti drink riuscisse a farsi prima di svenire. Bere svela le persone per quello che sono realmente. Scott, come Erny, quando beveva, riusciva a scrivere delle cose che lo facevano stare male ma erano dei ragazzini insicuri e in cerca di attenzioni e volevano sempre parlare di cose più grandi di loro. Per di più c’era la faccenda delle balle. Scott ti raccontava di inimmaginabili sbronze a Cannes, con una ballerina di Flamenco, una di Danza del Ventre e una Donna Cannone e papponi algerini, tutti vestiti di lustrini e accompagnati da baldracche bibliche con capezzoli da cui sgorgava champagne e miele,  mentre in realtà era stato a casa a ubriacarsi di Scotch facendo da balia a Zelda, in preda alla sua nevrosi e alla sua gelosia. Del resto, poveraccio, anche lui sapeva che solo chi è un grande ballista può essere un grande scrittore.
Guarda Erny. Millantava la sua personale fetta di guerra eroica davanti al mondo mentre Ilario gli insegnava a riassestare barche al chiaro di luna e gli rinfacciava il servizio con la Croce Rossa.
Una sera piombò nel piccolo monolocale di Ilario
“Cos’hai da bere?”
“Solo birra.”
“Quanta?”
“Troppo poca.”
Il silenzio ballò una quadriglia con la semiotica del suo corpo. Se la sbronza fosse stato solo uno Stato, Hemingway avrebbe dovuto avere la cittadinanza onoraria. Barcollava e cercava punti d’appoggi ovunque
“Arrivo a casa tua e tu mi offri solo della cazzo di  birra. Che amico di merda, sei…”
“Cerca in qualche armadietto. Qualcosa troverai.”
Erny, facendo cascare bicchieri e posate ovunque, trovò del vino travasato in una bottiglia d’olio. Ilario si era dimenticato di averlo perché in quei giorni aveva perso molto tempo a pensare alla sua prima donna, la maestrina delle Elementari che gli aveva insegnato a misurare le rime con l’Orlando Furioso e i millimetri di epidermide a morsi e baci durante i loro incontri pomeridiani nell’odore di alghe e di biscotti al burro. L’imprecazione di Erny lo spaventò
“Fanculo, amico! Cercavo Cristo e mi hai dato il Santo Graal!”
“Prendi i bicchieri e versane uno anche a me!”
Erny era in vena di scherzi e portò i bicchieri in tavola mettendosi un panno bianco sul braccio e  mimando le movenze di un cameriere. Zitti per un po’, si gustarono la bottiglia finendola il prima possibile.
“E quest’ambrosia da dove salta fuori?”
“Dalla dispensa…”
“Simpaticone. Non sto scherzando è ottimo.”
“È di casa mia. Lo distilliamo al Torchio comune. Ed è bello poi sentire l’odore agrodolce del mosto, come fosse il sangue dei buoi al mattatoio... quando poi beviamo il novel…”
“Io dalle tue parti ci sono stato solo una volta e sono dovuto scappare remando per una notte intera. Eravamo io e la mia donna nel freddo di un’alba maledetta con alle spalle gli sbir…”
“Sì Erny, l’ho letto il tuo romanzo! E non eravate dalle mie parti. Era un altro Lago, cazzo. Non voglio più ripetertelo.”
“Va bene, ma un Lago è uguale ad un altro!”
“No! Sarebbe come dire che ogni Vita è uguale ad un’altra…”
“Non fare il filosofo con me, bellimbusto!”
“Filosofo? Io aggiusto barche!”
“No, no… tu sei uno stupido provinciale che mi giudica e che vuole insegnarmi a vivere!”
Ilario, alla finestra a fumare e a respirare la salsedine, guardò la luna. Si sentì giusto come un bambino in spiaggia che nel suo costumino a righe insegue un piccione con una pistola ad acqua.
“E tu da dove vieni, Erny? Da una Grande Città o da un buco come il mio?”
Lo Scrittore, che fino a poco prima cercava da bere biascicando per la stanza, provò a colpire Ilario con un destro da vecchio boxeur. Lui riuscì a schivarlo, essendo ancora sobrio. Erny, mancato il bersaglio, perse l’appoggio delle gambe si spalmò senza eleganza né bellezza sul pavimento. Biascicò una bestemmia, provò a rialzarsi e, piagnucolando, si addormentò. Ilario gli buttò addosso una coperta e iniziò a pensare al buco enorme di una barca che gli avevano portato al pomeriggio e al possibile utilizzo di un pezzo di legno e, soprattutto, di tanta buona volontà.
Capì, sentendo i rutti di Hemingway, che quel genio era come lui. Viveva una vita pazza solo per sentito dire, senza sapere se la sua storia sarebbe diventata Storia.
Ilario aggiustava barche per sentito dire. Gli era stato insegnato così. Suo nonno, grande lavoratore, cacciatore di fagiani e amante della montagna, aveva una barca ed era pescatore quando era fresco il ricordo della grande festa di un mese e mezzo per l’inaugurazione della casa di Nonna Nina e la notte della Pesca Miracolosa. Suo padre, uomo mitico da cui non avrebbe mai potuto imparare i segreti della vita e della tranquillità posata di colui che sempre cerca il Bene, maestro Falegname e grande credente (per via della sua sposa bambina, meravigliosa creatura divina che lo amò anche dopo la riunione del corpo e dell’anima, che vide in lui l’immagine terrena di Dio), gli aveva insegnato l’arte del far seccare la vetroresina sulla chiglia delle barche dei ricchi che venivano dalla Grande Città.
Lui, fuggito dal Paese perché aveva paura di amarlo troppo, era andato nella Cittadina sul Mare con gli artisti. Loro sistemavano l’anima delle persone scrivendo, lui sistemava le barche di quelle anime rotte sudando…

Non posso fare il grande scrittore. Sono un grande ballista, ok. Ma adesso devo andare a vomitare.

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